VELVET GOLDMINE

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Charlotte Kane
view post Posted on 26/1/2009, 01:04




Velvet Goldmine

Per analizzare Velvet Goldmine cominceremo mescolando Greil Marcus e Orson Welles. Ovvero, il futuro e il passato. Già da queste primissime battute avrete capito che questo filmetto di Todd Haynes sul glam-rock - quell'epoca bizzarra in cui alcuni buffi cantanti pop cominciarono a vestirsi da donna - è un vero e proprio labirinto. Un dedalo di incroci temporali e di riferimenti culturali. Ora vi prenderò per mano, vi farò entrare in questo labirinto e molto probabilmente vi lascerò a metà strada. Conosco bene l'ingresso ma non sono per nulla sicuro che ci sia un'uscita. Quanto a trovarla, poi! Ora voi saprete perfettamente chi era Orson Welles, ma avete tutto il diritto di non sapere chi sia Greil Marcus. Marcus è molto semplicemente il più importante storico del rock americano. Un uomo molto colto che ha scritto libri fondamentali su Elvis Presley, su Bob Dylan, sulla Band, sul rock'n'roll delle origini e sul rapporto fra musica punk e dadaismo. In particolare, il suo bellissimo libro su quest'ultimo argomento si chiama Tracce di rossetto ed è stato pubblicato nel 1989 da Leonardo Editore. In originale il titolo era Lipstick Traces e che ci crediate o no mi è quasi venuto un colpo quando, alla seconda visione di Velvet Goldmine, ho intravisto in un'inquadratura che si chiama così anche un album di Brian Slade, il cantante/eroe del film. Sono quelle coincidenze che ti lasciano stupefatto. In Tracce di rossetto Marcus leggeva tutta la stagione del punkrock inglese degli anni '70 alla luce delle esperienze dadaiste e situazioniste, dando per scontato che i Sex Pistols non avessero mai letto Guy Debord. Forte di questo esempio, mi permetterò di analizzare Velvet Goldmine alla luce del libro senza avere la certezza che Todd Haynes lo abbia letto. Cosa sulla quale, per altro, non giurerei: Haynes è un ragazzo in gamba, di ottime letture. Per quanto concerne Orson Welles, tutti coloro che hanno visto Velvet Goldmine ci hanno pensato, anche i giornalisti che hanno rivolto le domande di rito a Todd Haynes e ai suoi alla conferenza stampa di Cannes, dove il film era in concorso. Gli hanno chiesto subito: ha voluto fare un film alla Quarto potere? E Todd, che è una persona splendida, un giovanotto al tempo stesso geniale e modesto, ha risposto con totale sincerità: "Sì, ho ripreso la struttura da Quarto potere, anche se non oserei mai paragonarmi a Welles, né paragonare un mio film al suo". Giustissimo. Sta di fatto che Velvet Goldmine è un'indagine su un personaggio pubblico che ha fatto una fine misteriosa: Slade come Kane, su questo non ci piove. Agli occhi dei critici, questo potrebbe essere sufficiente per dare una patente di "rispettabilità culturale" al suddetto filmetto su rock & paillettes, ma è solo la prima curva del labirinto. È un primissimo livello di lettura, il più semplice e il più immediato: sotto, c'è molto di più. Se vi fidate, continuate a leggere. Se avete già deciso che sto dando i numeri, fermatevi pure qui.

Le storie sono ciò che resta degli imperi

Diciamo allora che il livello-Welles è una ricerca sul passato. Aggiriamo la prima curva del labirinto e diciamo una seconda, banale verità: il giornalista Arthur Stuart, indagando su Slade, indaga su se stesso. Dal punto di vista di Arthur il film è una lunga seduta psicoanalitica per fare emergere un rimosso: quella "notte sui tetti" (la citazione dei Marx è assolutamente stupida, ma mi sarebbe rimasta nella strozza se non l'avessi fatta) in cui ha fatto l'amore con Curt Wild "conquistando" il diritto alla propria bisessualità. È abbastanza evidente che Wild è la Natura rispetto a Slade e a Stuart che sono la Ragione, il primo applicato all'arte il secondo al voyeurismo e, successivamente, a quella particolare forma di voyeurismo intellettuale che è il giornalismo. Per entrambi, incontrare Wild significa affrontare finalmente la bestia che è in noi, guardarla negli occhi, scoprire che è sexy, amarla. In breve: Wild inizia entrambi all'omosessualità. Non è naturalmente un caso che Wild significhi "selvaggio" ma che, al tempo stesso, abbia una sola "e" in meno di Wilde, il cognome di Oscar. Per Haynes, Oscar Wilde è il vero padre del glam-rock e forse di tutto il rock, fin da quando, in apertura di film, ce lo mostra scolaretto che a domanda (della maestra) risponde: "Io da grande voglio diventare un idolo pop".

Il parallelo Wilde-glam è meno gratuito di quanto appaia: è sempre esistita una fortissima componente dandy nel rock britannico, spesso sapientemente bilanciata con il suo essere un'espressione della working class. Ma non bisogna dimenticare che l'Inghilterra è forse l'unico paese al mondo dove l'appartenenza alla working class può connotarsi in modo, al tempo stesso, molto violento e molto ambiguo. C'era un atteggiamento dandy nell'eleganza dei Mods (che avevano negli Who e nei Kinks i propri gruppi di riferimento) ed è assolutamente coerente che Slade, sia pure in una fugace inquadratura, attraversi un suo "periodo Mod"; c'è sempre stata forte ambiguità nel sex-appeal di un Mick Jagger, così come c'era un'indiscutibile componente di machismo da hooligan negli atteggiamenti di un divo dichiaratamente gay come Freddy Mercury dei Queen, e c'era ambiguità, o se vogliamo omologazione nichilista, persino nelle acconciature punk, in quei capelli a creste colorate, quegli spilloni nelle guance, quelle tute mimetiche e quegli anfibi ai piedi che univano ragazzi e ragazze in una moda violenta, sprezzante e paradossalmente unisex. Ripensando a questa ambiguità, mi viene sempre in mente la sequenza di Victor Victoria (di Blake Edwards) in cui James Garner, dopo aver trascorso una serata allucinante a fingersi "finocchio" per stare insieme a Julie Andrews (a sua volta travestita da uomo), si sfoga andando in un pub, facendo a botte con tutti i presenti e finendo a cantare canzonacce da osteria con gli altri ubriaconi. Victor Victoria non era un film sul glam-rock né, a rigore, un film davvero "inglese", ma finché si parla di identità sessuali "sfumate" rimane un testo sacro.

Insomma, non mi pare azzardato affermare che ha ragione Haynes quando dice, all'inizio del film, che "le storie sono ciò che resta degli Imperi", e che quindi la storia di Brian Slade che finge di farsi ammazzare, e di Arthur Stuart che indaga su di lui, sono ciò che resta di una cultura britannica gloriosa e radicata; l'eredità di un'ambiguità - o di un polimorfismo - che risale alla notte dei tempi, quando regnava la regina vergine Elisabetta, gli omosessuali Shakespeare e Marlowe erano gli scrittori più amati e i giovinetti interpretavano in teatro le parti da fanciulla (si parla della stessa cosa in un altro film britannico recente, Shakespeare in Love, con Gwyneth Paltrow che si finge uomo per recitare Romeo e finisce per rivelarsi donna e fare Giulietta: ma con quanta rozzezza, e quanta grazia in meno, rispetto agli androgini di Haynes). Dovendo rintracciare un padre letterario ed esistenziale del glam, Oscar Wilde era una scelta giusta, fatta con un sovrappiù d'ironia, giacché si immagina che il piccolo Oscar sia stato abbandonato sulla soglia di casa da un disco volante: allusione chiarissima agli alter-ego spaziali che ai glam-rockers piaceva inventarsi (il Maxwell Demon di Brian Slade corrisponde con perfetta simmetria allo Ziggy Stardust che David Bowie creò nel celebre album del 1972). Quando Slade si esibisce in quella sorta di circo mediatico rispondendo con arguzia alle domande della folla, usa spesso le parole di Oscar Wilde: "L'uomo non è se stesso quando parla in prima persona. Mettetegli una maschera e dirà la verita".

Velvet Goldmine è, ovviamente, un film di maschere. Tutta l'epopea del glam-rock è una storia di maschere, e dice bene Haynes quando la paragona "a un grande set cinematografico dove tutti interpretavano una parte". La scena in cui Stuart esce di casa vestito come un bravo ragazzo inglese degh anni '70, nasconde i vestiti da "borghese" fuori del portone, e si avvia per la strada con occhi bistrati e abiti multicolori, è esemplare. Slade è, per tutto il film, un susseguirsi di travestimenti: un camaleonte, un vero polimorfo. Né si pensi che questa fosse un'esclusiva del glam-rock: anche in questo furono pionieri i Beatles che cambiavano look ad ogni disco e misero in scena se stessi come personaggi da circo in Sgt. Pepper; più tardi gruppi come Genesis, Jethro Tull, Emerson Lake & Palmer - ovvero gli esponenti del cosiddetto "progressive rock" che con il glam non avevano, musicalmente, nulla a che vedere - andavano in scena mascherati e trasformavano i concerti in happening a metà fra la carnevalata e la narrazione epica (nel senso brechtiano del termine); più tardi ancora i Kiss o i Queen avrebbero accentuato il versante carnevalesco e kitsch di tutto ciò. Maschera e rock vanno di pari passo (magari con i riferimenti d'obbligo al glamour hollywoodiano, come la foto di Jean Harlow che campeggia dietro la scrivania del manager di Slade, o la battuta secondo la quale Slade & Wild sarebbero lo Spencer Tracy e la Katharine Hepburn degli anni '70).

Certo, esiste anche un rock che costruisce la propria immagine sulla mancanza di immagine: pensate ai camicioni dei grunge o più semplicemente alle t-shirt di Bruce Springsteen. Questo approccio al rock è rappresentato nel film da Curt Wild che non a caso, quando Slade lo vede per la prima volta, opera un vero e proprio spogliarello sul palco, destrutturando la maschera alla pura e semplice dimensione di un sedere nudo. Questo incontro fra due esseri così diversi e così speculari - nel senso che hanno percorso la medesima via nella costruzione di una rockstar, ma uno partendo da A per arrivare a B, l'altro nel senso inverso - non puo che far scoccare una scintilla d'amore. Haynes racconta l'innamoramento fra Slade e Wild in una sequenza semplicemente mirabile, commentata da queIla meravigliosa canzone che è Satellite of Love di Lou Reed: ma non è casuale che l'amore fra Slade e Wild ha sempre Stuart in sottofondo. La sequenza suddetta, aperta da quella spudorata, magnifica trovata dei cuoricini che compaiono negli occhi dei due (e dai dollari che spuntano nelle pupille di Jerry Devine, il laido manager), è visualmente assai simile alla scena in cui sarà Stuart ad essere sedotto da Wild. Subito dopo, nell'altra splendida sequenza del concerto in cui Blade canta Baby's on Fire di Brian Eno, Haynes mette in fila una serie di citazioni addirittura ubriacanti: il gesto di Slade che si inginocchia davanti a Wild, mimando una fellatio alla chitarra elettrica, ricrea testualmlente una celeberrima foto di David Bowie impegnato a fare lo stesso servizietto alla Gibson del suo fidato chitarrista Mick Ronson - ma anche a un tipico atteggiamento di Jim Morrison, che nei concerti dei Doors recitava spesso la stessa scena con Robby Krieger. D'altro canto, la foto in cui Wild e Slade si baciano riproduce una famosa foto analoga sempre di Bowie, ma stavolta con Mick Jagger. Mentre Baby's on Fire continua, il flusso narrativo del film si sposta sull'orgia in cui Slade e Wild "consumano" di fronte agli occhi addolorati di Mandy, la moglie del primo; in parallelo, Stuart, a casa, si chiude in camera sua e si masturba guardando la foto su un giornale, mentre i suoi genitori bussano alla porta intimandogli di abbassare il volume del giradischi.

La linea delle tue labbra riscrive la storia

Queste sono le scene in cui maggiormente Haynes dà del glam-rock una lettura dichiaratamente gay. È qualcosa che alcuni testimoni d'epoca non gli hanno perdonato, e che probabilmente gli è costata l'approvazione di Bowie, che ha rifiutato le sue canzoni per il film. È abbastanza singolare, ripensando agli anni del glam, scoprire che quasi tutti i cantanti che giocavano a fingersi gay e travestiti erano in realtà straight, eterosessuali, o al massimo affascinati dalla bisessualità per un breve periodo della loro vita. Era così per Bowie, per Lou Reed, per Iggy Pop, per Brian Ferry dei Roxy Music e per molti altri. Ma Haynes, oltre che parlare della costruzione di una rock-star, e dell'indagine che su questa rock-star compie un giornalista ex fan, voleva parlare anche di un tema molto intimo: la scoperta, e l'orgoglio, della bisessualità, se non dell'omosessualità tout court. È quasi toccante che lo faccia concedendosi anche un'autocitazione. Sempre nella sequenza dell'innamoramento al suono di Satellite of Love, un'inquadratura ci mostra due bambole Barbie con le teste che riproducono Slade e Wild: è un rimando al primissimo film di Haynes che si intitolava Superstar: The Karen Carpenter Story, dove la morte per anoressia della famosa cantante pop veniva narrata utilizzando come "attori" esclusivamente delle Barbie (per inciso, si tratta di un film proibito e pressoché invisibile: la casa produttrice della Barbie non diede mai il permesso di mostrarlo in pubblico). Il tema dell'iniziazione sessuale è parte integrante della ricerca che Stuart compie sul passato di Slade, e sul proprio. La "raffica" di sequenze che compone il primo lungo flash-back, in cui il primo manager di Slade racconta la sua formazione, è un vero e proprio portrait of the artist as a young rnan (tanto per citare, anziché Wilde, l'altro grande irlandese, Joyce e il suo Dedalus) sotto il segno della doppiezza. Brian Slade nasce come Thomas in un sobborgo di Birmingham, ma scopre ben presto che "la periferia non fa per lui". Viene iniziato ai travestimenti da uno zio artistoide (lo interpreta Lindsay Kemp, che fu maestro di mimo di David Bowie...). Fin da bimbo canta Tutti Frutti imitando Little Richard, rocker effeminato nonché vera e propria icona della cultura gay. Al primo concerto un hippy lo insulta gridandogli "frocio di Birmingham!" (qui Haynes forza persino, pro domo sua, i termini della questione: gli hippies avranno avuto tanti difetti ma non erano così omofobi) E viene folgorato dalla visione di Wild che canta in modo così selvaggio con il suo gruppo dei Ratttz.

In realtà, Slade ha avuto un maestro dal quale ha ricevuto un testimone. Il "segno" del passato a cui Stuart dà la caccia è quella spilla con lo smeraldo che, lungo il film, passa di mano in mano come le lance e gli anelli fatati dell'Ariosto, o come il pezzo di sapone che compie una sua personalissima "odissea" all'interno dell'Ulisse di Jovee. La spilla appartiene prima a Oscar Wilde, poi arriva a Slade tramite Jack Fairy, un personaggio che attraversa il film come una presenza misteriosa (in seguito passerà a Wild e poi arriverà a Stuart). Fairy è il primo rocker travestito, il maestro oscuro di Slade, una specie di "cavaliere Jedi" del glam. È lui nascosto nell'ombra, a fingere di sparare a Slade nel concerto del falso omicidio. È lui a celebrarne la memoria nello show finale. Ma soprattutto è lui a indicarci la strada per parlare di Greil Marcus e del futuro, dopo aver trascorso il passato in compagnia di Orson Welles e di tutti i personaggi citati finora.

È diventato un'altra persona. D'altra parte, lo è sempre stato.

La parte più enigmatica di Velvet Goldmine è l'inizio. Alla prima visione si è portati a dimenticarlo, o a ricordarsi esclusivamente la gag del disco volante e del piccolo Wilde "idolo pop". Sarò particolarmente tardo, ma solo alla seconda visione mi sono reso conto che il bimbo al quale Wilde passa il testimone è, appunto, Jack Fairy. Il film inizia nel 1854: la data della nascita di Oscar Wilde. Poco dopo, una scritta ci avverte che siamo passati a "cent'anni dopo", ovvero nel 1954. Siamo in una tipica scuola britannica e un gruppo di ragazzini in divisa si trastulla con i soliti giochi da maschiacci. Solo uno di loro si distacca. È Jack Fairy. Ed è lui che, toccandosi il labbro sporco di sangue per la ferita riportata nel gioco rude di cui sopra, trasforma il sangue in rossetto. Questa trasformazione è un segno del destino. Il travestimento e l'ambiguità nascono come un gesto di volontà, la capacità beffarda di piegare una violenza subita in una scelta esistenziale che segnerà il futuro - di Jack, e di quelli come lui.

Scrive Greil Marcus (Tracce di rossetto, pag. 21): "I Sex Pistols avevano cominciato inseguendo un progetto: in Anarchy in the UK se la prendevano con il presente, e in God Save the Queen con il passato fino a coinvolgere il futuro predicando con determinazione: NO FUTURE, NO FUTURE FOR YOU. Con questo salmodiare sarcastico terminava la canzone. "Non c'è futuro nel sogno inglese": il sogno inglese del suo passato glorioso rappresentato dalla regina, l'"idiota", la principale attrazione turistica della nazione, il perno di un'economia basata sul nulla, il balsamo sulle piaghe prodotte dall'amputazione dell'impero. "Noi siamo il futuro" urlava Johnny Rotten con l'aria da criminale, da pazzo scappato dal manicomio, da troglodita".

Nel momento in cui si passa un dito sulle labbra e trasforma il sangue in rossetto, anche Jack Fairy lenisce una "piaga prodotta dall'amputazione dell'impero" e afferma "Noi siamo il futuro". Apparentemente non c'è nulla in comune tra punk e glam. Eppure... eppure, basterebbe la presenza di Iggy Pop per legare i due filoni. Iggy ha costeggiato il glam grazie alla venerazione che Bowie aveva per lui, ma con i suoi atteggiamenti strafottenti sul palco e soprattutto con la sua musica è stato un proto-punk. E certo un manager spregiudicato come Malcolm McLaren - l'uomo che "inventò" i Sex Pistols, il vero "eroe" del film di Julien Temple The Great Rock'n'roll Swindle - assomiglia non poco al Jerry Devine che plasma l'immagine di Brian Slade in Velvet Goldmine. In entrambi i casi siamo di fronte a una "scena" e a una grande finzione che nasce da esigenze esistenziali profonde. La differenza è di atteggiamento: i punk sputano in faccia al mondo la propria disperazione e il proprio nichilismo, i glam ostentano un'ambiguità sessuale spesso fittizia per ostentare la propria bellezza e il proprio desiderio di gratificazione. Se il motto dei punk è l'urlo "No Future" citato da Marcus, quello dei glam potrebbe, a posteriori, riassumersi nel titolo I Wanna Be Adored, che il gruppo pop degli Stone Roses diede a una sua canzone qualche lustro dopo. Ma che sia un rifiuto, o un'affermazione, c'è comunque il desiderio di urlare al mondo il proprio io, di sconfiggere ogni possibile Personality Crisis (titolo di una canzone dei New York Dolls, gruppo rock en travesti, che nel film è eseguita da Donna Matthews e dai Teenage Fanclub). Il glam come un grido di identità, e ogni identità è un investimento per il futuro. E il futuro è il 1984. È qui, nei "dieci anni dopo" rispetto al finto omicidio di Slade, che si nasconde l'anima profonda e amara di Velvet Goldmine. E anche il partito preso stilistico di Haynes, un tour de force temporale scandito da due lunghi flash-back, i racconti del manager e di Mandy, all'interno dei quali l'andirivieni nel tempo è incessante e fluido: di nuovo, un labirinto idealmente aperto dal 1854 (il prologo, la nascita di Oscar Wilde) e continuamente oscillante, nel segno del "4", fra il 1954, il 1974 e il 1984, con continue "fughe" negli anni precedenti il finto omicidio di Slade. Il 1984 è il tempo in cui Stuart, cresciuto (?) e rientrato nei ranghi, fa il giornalista a New York e si vede affidare un'inchiesta sul suo vecchio mito. È un 1984 in cui gli Stati Uniti sembrano uno stato di polizia, alla Casa Bianca c'è un presidente reazionario di nome Reynolds e il suo "portavoce" fidato è un assurdo cantante abbronzato e con dieci chili di permanente chiamato Tommy Stone. Un 1984 in cui i bar sembrano usciti dai bassifondi del socialismo reale e i colori degli anni '70 sono scomparsi.

Insomma, un 1984 "inventato", molto orwelliano. Sempre a Cannes, Haynes non ebbe alcuna difficoltà a confessarlo: "Il "presente" del film è il 1974, l'anno in cui Slade mette in scena la propria morte. Il 1984 è un futuro "fantastico", un po' come si immagina il futuro prossimo in certi film di fantascienza". È in questo 1984 che Wild rivede Stuart e gli dice di star bene, "a patto di non guardare il mondo". Ed è qui che l'apparente vittoria personale di Slade e di Stuart (l'essere arrivati a patti con se stessi, con il proprio corpo e con i propri sogni) si trasforma in una sconfitta generazionale e storica. Il glam, con un facile gioco di parole diventa gloom: oscurità, tenebra, malinconia, tristezza. La resa di Stuart è quella dell'uomo comune: sognava le rockstar, si truccava gli occhi, ascoltava i loro dischi, oggi ha un buon lavoro e una vita qualunque. Ma la resa di Slade è tremenda: il bel gesto della morte in scena si è subito rivelato un inganno, l'amore per Wild è andato di pari passo con la crudeltà nei confronti della moglie Mandy, e sul piano artistico il tradimento è stato totale perché al 99 per cento - il film lascia un pizzico di mistero, ma proprio solo un pizzico - è lui Tommy Stone, il crooner bigotto alla Las Vegas, la caricatura di un Elvis grottesco e mortuario.

Tornando a David Bowie, e alle ironiche immagini del futuro che percorrevano la sua musica, è come se il marziano Ziggy Stardust non fosse mai esistito, e il futuro fosse invece quello dei "cani di diamanti", gli orridi mutanti immaginati sulla copertina di Diamond Dogs, un disco del 1974 (guarda un po', l'anno in cui Brian Slade si fece uccidere per finta...) che, ennesima coincidenza, conteneva anche due canzoni, 1984 e Big Brother, ispirate a Orwell. Finisce tutto così? Non è detto. Perché, come insegna Greil Marcus paragonando i Sex Pistols ai Dada, l'essenza del situazionismo è esserci, lasciare tracce sui muri e nelle coscienze, rispettare la ricetta di Tristan Tzara secondo il quale scrivere poesie dadaiste significava ritagliare parole da un giornale, agitarle in un sacco e poi incollarle a caso su una pagina. In questo senso l'indagine di Stuart è destinata allo scacco perché quelle parole - che lui ritrova nei giornali e nei filmati d'epoca, alla disperata ricerca di un senso che non c'è - non possono, non devono essere ricomposte. Ma la scelta iniziale di Jack Fairy, quella no, non viene sconfitta. La dichiarazione di esistenza, idealmente timbrata non appena il polimorfismo nascosto si estrinseca su un palco, vale per l'oggi e vale per sempre. Non può essere un caso che Jack Fairy sia lì all'inizio e sia ancora lì alla fine, senza una psicologia, senza una sua storia da raccontare, senza una vera identità nascosta sotto la maschera, ma con la sola forza del proprio esserci. Perché Jack Fairy non è quella cosa ottocentesca e naturalista che chiamiamo "personaggio" - mentre Stuart, e Slade, e Wild e Jerry Devine e Mandy in qualche misura lo sono, "personaggi". Jack Fairy è l'Es freudiano, è il Donatore delle fiabe secondo Propp, è colui che dà a Slade la spilla che è poi un semaforo verde per continuare a esistere nel tempo. È lui, il vero dadaista.

Se si analizza Velvet Goldmine basandosi sui "personaggi" di Slade, Stuart e Wild si può rischiare di vederlo come un film "normale", certo raffinato, colorato, con bellissime musiche e una struttura narrativa costruita come un labirinto piacevole da percorrere fino all'uscita - che è poi il senso di nostalgia per una generazione irripetibile. Ma se si segue Jack Fairy come un filo rosso, si scopre che è lui il Minotauro, ed è molto diffficile capire a quale svolta del labirinto ti si parerà davanti. Certo è là, ad aspettarti alla fine, ancora con le piume, i brillantini e il mascara, a cantare l'ultima canzone con le immagini di Brian Slade e di Curt Wild proiettate sul palco dietro di lui.

Jack Fairy è fuori dal tempo. I Doors cantavano "We want the world and we want it now", vogliamo il mondo e lo vogliamo ora. Jack Fairy vuole il mondo ma non importa quando. Perché il futuro è suo, e quando afferrerà il mondo potete star tranquilli che non lo mollerà più (Alberto Crespi da Cineforum n. 381).


INTERVISTA A TODD HAYNES

Velvet Goldmme è il tuo terzo lungometraggio e per la terza volta costituisce un radicale cambio di stile. Dopo il furore di Poison e la glacialità cronenberghiana di Safe, un musical a metà strada tra Welles e Ophuls. Sembra proprio che tu non voglia essere identificato come un "autore"...

- Non si tratta di una strategia consapevole, a dire il vero. È solo che per quanto mi riguarda, almeno fino a un certo punto, non credo, o meglio non mi interessa..., avere o sviluppare uno stile ben identificabile [Haynes parla di signature style, ndr]. Per molti versi quello che condividono tutti i miei film sono gli interrogativi riguardanti le questioni dell'identità. Tutti i miei film mettono in discussione l'idea che l'identità sia qualcosa di organico, fissato, predeterminato, regolare... e in qualche modo i miei film provano che la mia identità, così com'è riflessa in essi, cambia radicalmente.

- Comunque sei riuscito a deludere coloro che avevano amato lo stile da guerriglia di Poison con il rigore di Safe e quelli che avevano amato Safe con la libertà di Velvet Goldmine...

- Capisco quello che vuoi dire. Alcune persone però mi hanno fatto notare delle somiglianze tra Poison e Velvet Goldmine e tra Safe e Superstar [un mediometraggio inedito in Italia dedicato alla cantante Karen Carpenter morta di anoressia, realizzato con delle Barbie e citato in Velvet Goldmine, ndr.]. Questi ultimi due sono entrambi dei film incentrati su una donna, una malattia e, per certi versi, si potrebbe dire che entrambi sono dei film su Los Angeles...

- Molti critici hanno notato le inevitabili influenze di Quarto potere, mentre mi sembra che siano state trascurate quelle riguardanti Lola Montès di Ophuls con la sua ossessione per la rivelazione del passato e del tempo vissuto come tempo dello spettacolo... Cos'è che hai amato di più di Lola Montès?

- Tutto. Amo quel film. È veramente un grande film da vedere. Mentre scrivevo la sceneggiatura di Velvet Goldmine l'ho visto a ripetizione. Ho sempre amato il modo come la vita di una persona viene ricostruita, rivissuta in un contesto teatrale. E poi c'era questa triste ironia nel fatto che Lola Montès deve rivivere nuavamente il suo passato ma per il pubblico e poi, in quella notte particolare, diventa troppo... Ecco: questo tipo di triste ironia era qualcosa che volevo a tutti i costi in Velvet Goldmine. Ovviamente i due film sono molto differenti, ma ci sono delle cose che li uniscono...

- ... e poi in Lola Montès c'è questa idea del tempo che si svolge in maniera non lineare a rivelare quasi dimensioni parallele dell'esistenza senza contare la questione della necessità del tradimento per poter continuare a vivere...

- Certo, sono d'accordo con quello che dici. In questo senso Quarto potere, che è un riferimento dichiarato di Velvet Goldmine, mi interessa più come modo, struttura di raccontare una storia che altro. Si tratta del film più famoso della storia del cinema e racconta la storia di una persona molto famosa... E in ultima analisi questo tentativo è la cronaca di un fallimento. Il film tenta di spiegarci esattamente chi era Charles Foster Kane e come la parola Rosebud possa riassumerne il personaggio, ma ovviamente si tratta di un'impresa impossibile. Il cinema è proprio questo tentativo di riassumere un personaggio in un breve arco di tempo a un livello tale nel quale possiamo avere la sensazione di conoscere un personaggio, di comprenderlo.. Ma in realtà non si tratta altro che di una serie di atti, gesti che ci fanno credere a questa cosa e Quarto potere dimostra invece che non si può mai conoscere un personaggio. Perlomeno non in modi semplici. Il modo in cui veniamo a conoscere Kane alla fine del film è attraverso contraddizioni...

- Mi sembra che si tratti del medesimo meccanismo all'opera in Velvet Goldmine. Sin dal principio sappiamo che non riusciremo mai a conoscere il personaggio di Brian Slade. Tutto ciò che il film rivelerà saranno bugie, menzogne dietro le quali però si cela la vita...

- ... e poi si capisce che non è Slade il centro del film, ma Arthur, il fan...

- Il film è incentrato sul desiderio di un fan e su tutto quello che si riesce a mettere in questo sentimento di affezione per riempire, abbellire, elaborare il vuoto che ci separa dalle cose che amiamo. Si tratta veramente di riempire il vuoto tra "noi" in quella piccola stanzetta, laggiù a Manchester e "loro", lassù sul palco... O sulla copertina di un disco, ma sostanzialmente al di là della nostra possibilità di toccarli... Ma credo che ci siano comunque tutta una serie di cose molto interessanti, che sono reali e che riescono a essere trasferite, tradotte in qualche modo. Mi riferisco alla sequenza in Velvet Goldmine quando Brian e Curt si stanno esibendo sul palco e Brian s'inginocchia davanti a Curt e finge di fargli un pompino, proprio come faceva Bowie con Mick Ronson. Le macchine fotografiche scattano, le foto passano attraverso le rotative e vengono riprodotte nelle riviste e infine vendute nelle edicole fino a quando un ragazzo di Manchester non ne prende una copia, la apre e la foto gli procura un'erezione. Questa è una cosa molto reale, in definitiva posso dire che si tratta di desiderio: una cosa che riesce a restare intatta mentre passa attraverso la cultura per finire nelle nostre mani.

- Mi sembra che questa questione del desiderio attraversi tutti e tre i tuoi lungometraggi. In Velvet Goldmine il desiderio riesce a inventare persino delle identità nuove e sempre cangianti...

- Per gli spettatori è sempre molto difficile avvicinarsi la prima volta al film. Il film è troppo denso. Mi chiedo quanto riesca ad accettare del film lo spettatore dopo la prima visione... Mi ricordo che Performance di Nicholas Roeg, quando lo vidi da ragazzo, mi fece la medesima impressione: c'erano troppe cose nel film per essere colte tutte insieme dopo la prima visione... E si trattava anche di un film come non se n'era mai visto uno prima d'allora... Ma c'erano proprio abbastanza cose per farmi desiderare di andarlo a rivedere! Dovevo andarlo a rivedere! Ero troppo entusiasta del film! Non so se oggi il pubblico è eccitato come una volta all'idea di gente che tenta di fare qualcosa di diverso; di vedere delle cose nuove e se soprattutto è disposta a interrogarsi rispetto a quello che hanno visto e di conseguenza a chiedersi se hanno capito tutto ciò che hanno visto... Se c'è qualcosa che merita di essere approfondito. Forse il film è troppo denso e non abbastanza accessibile. Non so se ci sono degli elementi che ti saltano addosso già alla prima visione e che ti fanno venir voglia di vederlo una seconda volta..

- Credo che a una prima visione si perda il senso dell'intimità del film come sommersi dai colori, dai suoni, dalle immagini... In qualche modo, in questo film sulle maschere, bisogna accettare l'idea che il film stesso è la maschera...

- Decisamente... Ma non credo che Arthur sia una maschera. Lui è esattamente ciò che serve al film...

(a cura di Giona A. Nazzaro, da Cineforum n. 381).


Edited by Scarlet Blake - 28/6/2011, 03:50
 
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